Non passa giorno che il modesto ministro Renato Brunetta trovi modo- con interviste e dichiarazioni, peggio ancora con provvedimenti – di tornare a infierire sui dipendenti della Pubblica Amministrazione.
Messa in soffitta la retorica degli eroi del settore sanitario, rispetto ai quali non ha mai espresso una parola, il ministro prosegue a ogni pie’ sospinto nella sua campagna contro i presunti fannulloni del pubblico impiego: una campagna che non ha mai abbandonato.
E anche quelle organizzazioni sindacali che cercavano uno strapuntino al desco del ministro in piena pandemia e zona rossa, al fine di ultimare l’opera di demolizione della funzione pubblica dello Stato, si indignano (come al solito) solo per il fatto di non essere adeguatamente riconosciute e bollinate come interlocutrici privilegiate del governo Draghi.
È così su tutto: dalle pensioni, alle scelte di politica economica del Governo, per finire al PNRR e – udite, udite – perfino ai contratti: ormai non toccano più palla!
L’audace Renato ormai, in continuità con la sua campagna di oltre dieci anni fa contro i fannulloni e in assoluta continuità con il presidente Draghi, blocca gli aumenti contrattuali al di sotto del tasso d’inflazione reale e addolcito (indice IPCA); scrive a tutti i dipendenti pubblici raccontando di fantasmagoriche virtù di una formazione che sarà, al solito, riservata a pochi eletti e dimenticando che in assenza del suo intervento (o di quello dei suoi predecessori) i lavoratori pubblici si sono formati da soli, pagando di tasca propria ciò che le amministrazioni non garantivano e saltando d’un balzo ogni relazione con organizzazioni sindacali silenti; impone l’azzeramento del lavoro agile che, in molti casi, è stato il solo strumento per far funzionare le attività amministrative e che si è rivelato più produttivo della presenza, ma dimentico che per una moltitudine di professioni (sanità, scuola, emergenza e sicurezza) di agile ce n’è stato veramente poco; ha ottenuto l’introduzione dell’area quadri che sottrarrà ancora risorse alle nostre già magre finanze e il superamento del tetto di 240.000 Euro l’anno di retribuzione per la dirigenza.
Tutto questo è l’indice della piena condivisione dell’operato del ministro con i sindacatoni ormai funzionali allo smantellamento della macchina pubblica e speranzosi di subentrare con le loro strutture alla gestione di sanità, pensioni, lavoro, etc. (il cd. welfare integrativo).
C’è poi un altro pezzo di sindacato che invece persegue la conservazione della propria “confort zone” e lo fa abdicando ad una politica sindacale di carattere generale, ma inseguendo piccoli specifici interessi corporativi o sperando di perseguire il “bollino blu” della rappresentanza con improvvide alleanze elettorali.
Dovremo ricordarcene tutti in occasione delle prossime RSU del 5, 6 e 7 Aprile. Sarebbe un grande schiaffo morale all’uno e agli altri. Sarebbe un modo per uscire a testa alta da due anni di segregazione e di apnea sociale.
Sarebbe il momento per riprendere in mano il proprio destino, per rialzare la testa e rivendicare con forza salario, diritti e dignità.
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